École des chartes » ELEC » Landesherrliche Kanzleien im Spätmittelalter » I concetti di autenticità e di originalità nella documentazione della Cancelleria genovese nel Medioevo
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[p. 485] I concetti di autenticità e di originalità nella documentazione della Cancelleria genovese nel Medioevo

Non molti anni orsono R.H. Bautier, in una memorabile „leçon d’ouverture du Cours de Diplomatique‟ a l’Ecole des Chartes1, ancora una volta ricordava come uno dei due grandi problemi della Diplomatica sia rappresentato dalla critica della provenienza del documento. Critica della provenienza che, a sua volta, si bipartisce in critica dell’origine di un testo e in critica della legittimità della provenienza stessa o di autenticità e che assume particolare rilievo quando, come il predetto autore suggerisce, si voglia allargare l’indagine ad ogni tipo di documentazione d’archivio in opposizione alle fonti narrative.

Con ciò egli non intendeva affatto misconoscere i preziosi frutti degli studi che, pur restringendo, in un certo senso, l’indagine a quello che il Bautier definisce come l’„acte instrumentaire‟, avevano permesso di fissare alcune definizioni fondamentali, o canoni d’interpretazione, di quella che, da allora, da „Ars Diplomatica‟ diveniva „Urkundenlehre‟, grazie alla perspicace e precisa metodologia instaurata da insigni studiosi germanici a partire dal Ficker2, dal Sickel3, dal Bresslau4, per venire al Redlich5, allo Steinacker6, al Thommen7 e via via accettata anche in Francia8 ed in Italia9.

[p. 486] Al confronto di tali posizioni la terminologia usata nei secoli precedenti doveva, per forza di cose, sembrare imprecisa e inadeguata, come osserva il Sickel10. Pare, quindi, interessante indagare come tale terminologia sia stata usata un una Cancelleria Medioevale Italiana e come siano, a mano a mano, andati formandosi i concetti di volta in volta fatti propri dai vari cancellieri, a quali concezioni di pensiero si siano ispirati e se di imprecisione od inadeguatezza si tratti o non piuttosto di rispondenza a quelli che il momento storico induceva come concetti di importanza preponderante.

Appunto a quelle indagini ed alla metodologia che ne scaturiva risalgono le definizioni più accettate di „originale‟ e, forse, la più perspicua di esse è proprio quella del Bresslau che scriveva: „quell’esemplare oppure quegli esemplari di un documento che per disposizione oppure con il consenso dell’autore hanno avuto origine e sono destinati a servire al destinatario come testimonianza del negozio noi indichiamo come originali‟11. Egli non mancava di far notare che il Sickel si era fermato solo alla prima parte di essa12 e, in effetti, una volta definito il documento – così egli scrive – come „una testimonianza scritta, redatta in forme determinate, per poter servire di prova a un fatto di natura giuridica‟13 ne consegue necessariamente che la definizione di originalità racchiude in sé anche quella di autenticità, come, del resto, lo stesso Bresslau avverte14.

Si prospettano pertanto due interrogativi:

I°) Che cosa intendevano per documento originale i medievali

II°) Quale delle due condizioni ricordate essi privilegiassero. Si cercherà di rispondere dando precisazioni che, di volta in volta, possano meglio chiarire i termini della questione. Quando nella disposizione Dioclezianea si scrive: „Sancimus ut authentica ipsa et originalia rescripta … non exempla eorum insinuentur‟15 non si cade in un pleonasmo, come potrebbe sembrare alla stregua della definizione testè ricordata, ma è semplicemente perchè il concetto di documento originale non racchiude ancora in sè quello di autentico. Si ha chiara soltanto, da un lato, la necessità della certezza della provenienza diretta senza intermediari, dall’altro, quella dell’accertamento della capacità di pubblica fede e di forza di prova come qualcosa che si può aggiungere, che arrichisce e completa il documento. Questo fatto spiega, almeno in parte, la diversa elaborazione [p. 487] che i due concetti dovevano avere sia nella tarda Romanità che nello stesso Medioevo.

Il termine privilegiato in tutto il Medioevo è quello di autentico, come meglio si vedrà in seguito, attribuendogli, tuttavia, valori semantici diversi secondo i tempi.

C’è da tener presente che la certezza della provenienza diretta dall’autore della documentazione, intesa come qualcosa di connaturato al documento e accertabile su basi grafiche e stilistiche all’infuori di elementi quali le testimonianze, prevedeva e prevede tutta una possibilità di prova difficile da raggiungere. Oggi la critica dispone di raffinati strumenti di indagine, da quelli paleografici a quelli linguistici a tutti gli altri di natura scientifica16; nel Medioevo nulla di tutto questo e, in ultima analisi, la provenienza diretta dall’estensore, nel periodo più antico, poteva provarsi con elementi esterni al documento, quali solo le testimonianze.

Nei paesi di tradizione più legata al diritto Teodosiano, come la Provenza, neppure nei secoli IX e X si fa menzione del rogatario e sono i testi a „firmare‟ il documento magari „clara voce‟.

Questa iniziale difficoltà di prova spiega anche gli sforzi compiuti dalle varie Cancellerie per dar rilievo non solo alle intitulationes, come sembra pensare il Sickel17, ma anche per fornire un’impronta grafica particolare a tutta la propria documentazione, dalle litterae coelestes alla bollatica, e, all’opposto, l’estrema diffidenza del legislatore giustinianeo nei confronti della „comparatio litterarum‟.

Non si dimentichi che la Novella 73, al capo III, recita testualmente: „Tam nos quidem existimavimus ea quae viva dicuntur voce et cum iureiurando, haec digniora fide iudicatis prudentiae simul atque religionis ut veracibus potius pro talibus credat et nos quidem secundum hoc modum existimavimus oportere probari fidelia documenta‟18.

Diffidenza che si ripete in gran parte della legislazione Longobarda, Franca e Ottoniana, e che farà sentire il suo influsso anche molto più tardi. Non è [p. 488] questa la sede per scendere ad una casistica approfondita, ma risulta subito evidente come il concetto di originalità abbia incontrato fin dal momento della sua prima formazione un grosso ostacolo in quanto si è avuto occasione di accennare.

Ben diversa elaborazione aveva avuto il concetto di autenticità che poteva allacciarsi a precise formulazioni concettuali classiche fin da quando Cicerone aveva affermato che „ad faciendam fidem auctoritas quaeritur‟19.

Altri ha efficacemente dimostrato il legame che stringe authenticum ad auctoritas e la stessa derivazione di entrambi i termini da augere, che esprime il concetto di arricchimento, di accrescimento20. Concetto senza dubbio insito in ogni struttura ove si ritenga necessario che una capacità superiore si riverberi dal di fuori sulle persone, sugli enti e sui loro atti per potenziarli, come si chiedeva all’augur un presagio, prima di intraprendere un’azione di guerra, e che il Medioevo doveva far suo tracciando coordinate culturali e sviluppando interpretazioni e transvalutazioni di grande importanza storica. Da Tertulliano ad Agostino è tutto un processo di progressiva proiezione di aucthoritas su enti e persone che, al limite, assume una caratterizzazione sacrale. Sì che Agostino poteva esclamare „Ego vero Evangelio non crederem nisi me Catholicae Ecclesiae commoveret aucthoritas‟. E l’aucthoritas, il cui culto era stato spinto fino alla deificazione del suo rappresentante nell’Impero Romano e si era elevato fino alla santificazione di un imperatore come Carlo Magno21, voluta dal Barbarossa, in quello Cristiano, irradia il suo potere su tutti coloro che godono del suo usbergo e perseguono i suoi fini nelle attività di ogni giorno. Nascono così le „authenticae personae‟ che tanto spesso si incontrano nei documenti e che intervengono a „firmare‟, nell’accezione diplomatistica del verbo, la documentazione22.

Entrano nell’area dell’aucthoritas indiscussa i dottori di cui Beda ci rivela i nomi: Ambrogio, Gerolamo, Agostino e Gregorio, ai quali Berengario di Tours si appellerà nella sua polemica con Lanfranco23. Così anche, a poco a poco, elaborata ed istituzionalizzata, emerge l’aucthoritas delle deliberazioni conciliari e delle decretali, mentre si assiste, in una sfera di più specifici interessi culturali, a tutta una ricerca teorico-filologica sul valore dei termini aucthoritas, [p. 489] auctor e authenticum, anche se la più accettata etimologia rimane quella di Everardo di Béthune, ispirata a Prisciano, per il quale „auctor ab augendo nomen trahit, ast ab agendo actor, ab authentim, quod graecum est, nascitur author‟24.

Dispute che porteranno Alano di Lilla ad affermare l’autorità della glossa25 e Roberto di Mélun a controbattere „non est glossa aucthoritas nec aucthoritati equipollens, licet ex aucthoritate assumpta videatur‟26.

Da un punto di vista teorico per chi vive in un mondo di verità predisposte e indiscutibili la sua mentalità critica non si rivolge ad indagare sul fondamento di esse, gli apparirebbe un processo tautologico, ma si appunta piuttosto sul come quelle verità gli pervengono. L’autenticità, pertanto, prevale sulla originalità. Bisogna notare, tuttavia, come tutto questo travaglio avvenga soprattutto in relazione a temi di carattere teologico e filosofico; in campo documentario, dove ogni tentativo di indagine non doveva partire, come in quello teologico-filosofico da verità superiori, riconosciute ben definite e ritenute indiscutibili, ma si risolveva in una ricerca di certezza tutta umana, anche se il principio di autenticità rimane sovrano, in assonanza con il modo di pensare dell’epoca, quello di indubbia e diretta provenienza non poteva essere dimenticato. Prova ne sia che, se pure raramente, si trova ripetuta l’espressione originale et authenticum che si è vista usata nell’Età Dioclezianea. Del resto, ma siamo già nei primi decenni del sec. XII, Abelardo, nella sua „Laus dialetticae‟ afferma: „Poichè l’ostilità degli infedeli non può essere debellata con argomenti fondati sulla autorità dei santi e neppure dei filosofi, ma solo ricorrendo ad argomenti puramente umani, ossia naturali, contro chi si appoggia ad argomenti umani abbiamo deciso di rispondere con mezzi adatti‟27.

E’ la linea rivendicata più tardi da Ruggero Bacone e da Raimondo Lullo, che, tuttavia, la Scolastica accetterà fino ad un certo punto, perchè è noto come il suo metodo si fondi sulla verifica dei testi forniti dalla tradizione secondo il loro grado di autorità, seguito dalla discussione delle diverse opinioni. A questo punto l’esame della storia di una Cancelleria, quale quella genovese, può essere interessante.

[p. 490] Dall’Annalista Caffaro sappiamo che nel 1122 prende vita un embrione di cancelleria comunale. Egli scrive infatti: „Clavari scribanique, cancellarius pro utilitate Reipublicae in hoc consulatu primitus ordinati fuerunt‟28.

Il primo Cancelliere è Bonusinfans, un notaio che nel 1133 sottoscrive un importante documento comunale relativo soprattutto alla viabilità29 e che presta, in caso di bisogno, la sua opera al Comune pur continuando a rogare per i privati. Il Comune cerca, quindi, nella professionalità del notaio lo strumento adeguato per la redazione dei documenti in cui è parte e, nello stesso tempo, che possa garantirne la credibilità. Ricorre alla prassi notarile che da quel momento sarà la base strutturale di tutta la documentazione della Cancelleria. La „publica fides‟ del notaio non è certo quella di cui potrà godere in seguito, tuttavia, la cosa non pare priva d’importanza. Nel contempo, infatti, si può notare come, fin da questi primi momenti, i notai, nella loro veste di cancellieri o di addetti alla Cancelleria, non manchino di darsi pensiero di rendere possibile il risalire all’origine del documento, in altre parole all’originalità della documentazione, sempre intesa, però, come semplice provenienza indubbia e diretta dall’estensore. Paiono rappresentativi dell’intento alcuni usi, che si potrebbero ben dire cancellereschi, risalenti proprio agli anni intorno alla metà del sec. XII, indubbiamente dettati da necessità particolari e di natura la più diversa, ma tutti con l’implicita e sottesa tensione di non transcurare alcun mezzo di prova della provenienza diretta dall’autore della documentazione.

La posizione geografica poneva il Comune in una particolarissima situazione, che si potrebbe dire di confine, tra tradizioni documentarie lontane l’una dall’altra. Così ad occidente per la „charta‟ l’autenticità veniva garantita dalla „completio‟, di prescrizione giustinianea, e più oltre, nella vicina Provenza, ancora prevalevano tradizioni di diritto teodosiano, e la stessa condizione veniva ricercata attraverso la „firmatio‟ di testi che poteva avvenire anche solo „clara voce‟, senza che neppure apparisse il nome dello scrittore del documento, avvalorata, talora, con l’apposizione del sigillo dopo la presentazione a qualche „authentica persona‟30, quasi si volesse ripetere qualcosa che ricordasse l’insinuazione, dalle stesse norme di diritto ricordate prescritta, anche se, naturalmente, non sia possibile istituire confronti con l’omonimo istituto giuridico. [p. 491] Di fronte a posizioni così lontane si presentava certamente molto difficile la convalidazione di documenti interessanti contemporaneamente parti provenienti da luoghi e da usi documentari diversi, come avveniva nel caso di convenzioni tra comuni o tra comuni e signori feudali. In queste occasioni la Cancelleria Genovese, oltre a ricorrere, in qualche caso, per opportunità, all’uso del sigillo, gradito alla controparte, di una „authentica persona‟31, fa largo uso della „charta partita‟ o „per A, B, C, divisa‟32. In questo documento se è vero che la prova dell’autenticità è affidata alla constatazione dell’esatto combaciare e prolungarsi delle parti di lettere tagliate nei due esemplari, è altresì evidente che la medesima prova è garanzia della stessa „manus‟ dell’estensore. Ed in questi casi le copie, più tardi esemplate, non mancano di precisare che le stesse sono state tratte „ex originali et authentico‟.

Altrettanto si può osservare per un altro uso dei notai quando fungono da cancellieri, uso che, a quanto consta, non trova riscontro in altri centri dell’Italia Settentrionale: il costume, cioè, di contrassegnare i documenti rogati per il Comune con un particolare signum che prenderà appunto il nome di Signum Communis33. Segno che, peraltro, differisce nettamente da quello usato normalmente dal notaio quando roga per i privati. I primi esempi di tale uso si trovano già nel più antico cartolare di imbreviature che si conosca, quello di Giovanni Scriba, risalente agli anni intorno al 115034. Qui, almeno sotto certi aspetti, è più evidente l’intento di garantire la provenienza diretta dall’estensore della documentazione, in quanto fin dai primi esempi che possediamo è facile intravvedere, nel complicato intreccio di linee, sia la preoccupazione di rendere difficile ogni falsificazione sia quella di contrassegnare in modo appropriato, costante e verificabile il documento rogato per il Comune.

Una terza circostanza induce alle stesse conclusioni. Nel 1144 una disposizione comunale prescrive che tutti i „lodi‟ consolari ed altri tipi documentari siano sottoscritti da almeno due testi, che potremmo dire testimoni giurati, in quanto debbono essere tratti da un apposito elenco predisposto e debbono prestare un particolare giuramento. Vale la pena di riprodurre testualmente le parti della disposizione che possono interessare il tema che si va discutendo: „Ianuenses consules quosdam peritos viros venustate atque legalitate fulgentes publicos testes eligere qui contractus et testamenta atque decreta manu [p. 492] notarii scripta que legalites fieri posse conspicerent eorum subscriptionibus firmarent …‟35.

Il particolare peso attribuito alle sottoscrizioni di testi giurati, conosciuti e che, pertanto, sottoscrivono in forme grafiche facilmente verificabili, non pare da sottovalutare. Va da sè che la preoccupazione principale è quella, se così si può dire, di „augere‟ la testimonianza del notaio, ma non si può non avvertire come tale precauzione porti anche a rafforzare la prova della provenienza diretta dall’estensore della documentazione, nell’unica forma che, come si è cercato di chiarire, i tempi consentivano.

In tutti questi casi non si può misconoscere l’affermarsi di un processo di chiarificazione e di razionalizzazione rispetto all’uso della scrittura, diretto a sempre meglio rendere rispondente questo mezzo al proprio fine. La grafia che indubbiamente porta in sè la facoltà di memorizzare e di trasmettere a distanza, sia nel tempo sia nello spazio, una testimonianza ed ha la possibilità, oggi lo sappiamo, di dar prova per se stessa, anche solo attraverso il tratteggio dei caratteri, della provenienza da chi l’ha scritta, non aveva avuto, come si è visto, nè nella Classicità nè nel periodo post-classico giuridicamente tale riconoscimento. Anzi, senza voler risalire a tutto il formalismo della „charta‟ altomedioevale ed alla diffidenza giustinianea e postgiustinianea, solo considerando la storia delle sottoscrizioni nei documenti tabellionici si può constatare come queste, nate per sostituire un „signum‟ – all’epoca „sigillo‟ – strettamente personale si trovassero, ben presto, svuotate di gran parte della loro intima forza da disposizioni legislative che permettevcano, in loro luogo, l’uso di simboli apposti, talora dallo stesso sottoscrittore, tal’altra da altri fattori della documentazione. Questa circostanza sarà stata certo causata dalla nota, generale incapacità di scrivere, ciononostante finiva per lacerare l’intimo legame tra scrittura e scrittore, perchè, alla fin fine, nonostante la contraria opinione del legisalatore giustinianeo, la miglior garanzia di una sottoscrizione resta pur sempre la „comparatio litterarum‟. Un incremento della razionalità doveva necessariamente portare alla ricerca di mezzi di prova che astraendo da ogni significazione simbolica potessero avere valore di controllo per se stessi, un mezzo cioè, che non facesse perno sull’evanescenza di una semplice affermazione ma fosse frutto della pressione determinata dal verificarsi di precise circostanze. Ogni formalismo, infatti, nel gioco globale del simbolismo, ove i significati rinviano circolarmente dall’uno all’altro, finisce sempre fatalmente in una circolazione fiduciaria. Questo incremento di razionalità, del resto, trovava la sua linfa in tutto il contesto culturale e sembra rappresentare l’emergere di quel potere razionale che dovrà, poi, far gran conto di sè. Per ora si manifesta [p. 493] con l’impostazione di timide possibilità di confronti che, però, sono indice di quella crisi che finirà per opporre quanti si accontentano di spiegare ogni cosa con il ricorso alla autenticità della spiegazione a chi oltre la verità di diritto tende ad una verità di fatto. Si è ancora lontani da una concezione che leghi in un sistema di referenze evidenti per se stesse il fatto con la sua testimonianza, tuttavia, la lezione di Abelardo non rimane più senza echi.

La seconda metà del sec. XII doveva assistere a Genova ad importanti mutamenti ed a sempre più precise consolidazioni di prassi nella redazione del documento, che non potevano non avere, più tardi, importanti implicazioni nella formulazione dei concetti in esame. Cade, ormai, l’uso della „charta‟ con i suoi formalismi a garanzia di autenticità, gli ultimi sporadici esempi risalgono agli anni intorno al 117536, e s’impone l’instrumentum in cui si afferma la publica fides del notaio e la scrittura con la sua sottoscrizione assume da sola sempre maggior valore. Punto, se non si va errati, di grande importanza per il progressivo accentuarsi dell’attenzione sulla indubbia origine del documento finora posta in ombra dalla legittimità garantita de elementi esterni. Elemento significativo, al riguardo, pare l’evolversi, in questo torno di tempo, della forma dello stesso signum tabellionis che abbandonando forme stereotipate ricche di reminiscenze tachigrafiche e legate agli usi del Palatium, assume forme grafiche tutte tese a porre in risalto, a Genova, il pronome ego quasi a voler porre in grande evidenza il nuovo ruolo assunto dal notaio rogatario37.

Con l’affermarsi della „fides publica‟ del notaio ed il progressivo estendersi della influenza del rinnovato studio del diritto romano nonchè della prassi documentaria dell’instrumentum, decade anche l’uso della „charta partita‟ nelle convenzioni tra Comuni o tra Comuni e signori feudali ed anche in queste risulterà sufficiente la sola sottoscrizione notarile.

Ma soprattutto occorre tener presente tutto il complesso travaglio che porta al passaggio dalla notitia dorsale, ancora in uso a Genova nei primi decenni del Millecento38, annotazioni che fin quando vengono redatte in note tachigrafiche non hanno certo valore giuridico, fino al formarsi dei veri e propri registri di imbreviature che naturalmente possono assumere, e in realtà assumono, tutt’altra importanza dal punto di vista del diritto. I primi cartolari di imbreviature che si conservano a Genova – e sono anche i più antichi del mondo – risalgono agli anni intorno al 1150 e non è chi non veda come l’introduzione del loro uso assuma particolare rilievo per le possibilità di confronto che si instaurano tra imbreviatura e mundum, sia per quanto si riferisce alla indubbia [p. 494] che alla legittima provenienza. Nè si può trascurare di far presente, fin d’ora, come la natura di scrittura precedente dell’imbreviatura, rispetto al mundum, sia, più tardi, come meglio si vedrà in seguito, occasione di interessanti dispute dottrinali proprio a proposito dell’originalità del documento.

Sempre a questo proposito, vale a dire all’importanza da attribuirsi alla minuta ed al peso che questa può avere per l’accertamento della provenienza, non si può dimenticare il fatto che non solo le imbreviature vengono conservate, a Genova, alla metà del sec. XII, ma anche che la conservazione è preoccupazione precisa del Comune, tanto che già nel 1155 si ha notizia di „cartularia iteragentium‟, tenuti a cura del notaio che seguiva i consoli nei loro spostamenti. Sta già prendendo forma, quindi, una conservazione che si costituisce in archivio.

Se pur presente e sempre più pressante risulta la necessità intellettuale di confrontarsi con l’origine della documentazione, tuttavia, la condizione più esplicitamente richiesta rimane sempre quella dell’autenticità. La stessa tendenza del pensiero medievale alla sottomissione nei confronti di un testo ritenuto autentico sembra trasferirsi, per una specie di processo di generalizzazione, su ogni altro aspetto della vita e del sapere.

Il riconoscimento dell’autorità e della sua capacità di rendere autentico quanto tocchi, si può dire rimanga la legge di ogni ricerca e di ogni discussione. L’impiego sistematico del metodo della autorità, da Donato, in campo grammaticale, ad Aristotele, in campo filosofico, è ciò che caratterizza la mentalità. La Scolastica, che pur rappresenta un notevole passo nel processo di razionalizzazione, e con ciò, come è stato giustamente notato dal Gusdorf, pone i presupposti dell’indagine scientifica39, tuttavia fonda il suo metodo, come si è seritto sulla prioritaria verifica dei testi forniti dalla tradizione secondo il loro grado di autorità, per poi passare alla esposizione ed alla discussione delle diverse opinioni.

La grammatica sembra ispirarsi ad una specie di ontologismo grammaticale: i trattati contengono lunghi elenchi di nomi astratti e concreti di cui si cerca il fondamento non tentando di ricostruire le leggi del linguaggio ma, come già aveva intrapreso Abelardo, partendo dalle loro proprietà. Perfino la curiosità non pretende di scoprire delle derivazioni storiche ma di mettere in luce delle derivazioni che ritiene logiche e analogiche del vocabolo, riuscendo, spesso, a dei risultati stranissimi, come quello famoso di voler spiegare la parola „cadaver‟ come il compendio di „caro data vermibus‟.

La stessa dottrina giuridica che, alla fine del XII e nei primi decenni del XIII secolo, aveva dato vita ad importanti formulari notarili, tra i quali hanno [p. 495] spicco particolare quelli di Salatiele e di Ranieri da Perugia, e che, intorno alla metà del secolo stesso, doveva permettere l’elaborazione della grande „Summa‟ di Rolandino, nel cercare con quest’ultimo, che pure talvolta afferma che solo l’originale può avere pubblica fede40, di formulare una definizione di documento originale, non andava oltre il seguente dettato: „genus ex quo generatur et sumitur exemplum‟41. Dove c’è indubbiamente una chiara concezione della priorità della provenienza, in quanto ogni species non può, per definizione, precedere il genus da cui discende, ma che rimane limitata a questo aspetto e non autorizza in alcun modo a pensare che nel suo autore fossero presenti altre implicazioni. Tale interpretazione è confermata, per altra via, dallo stesso Rolandino quando include nella sua „Summa‟ anche due „formae‟ della „littera testimonialis‟. E’ questo un documento finora pochissimo analizzato ma del quale l’Archivio Genovese, così ricco nella sua parte notarile, offre ampia possibilità di studio. Veniva usato sia per il documento pubblico sia per quello privato. In esso, poichè il rogatario del documento, cui la „littera testimonialis‟ era materialmente unita dato che veniva scritta sulla stessa pergamena, non era conosciuto al di fuori della zona in cui normalmente esercitava il suo ufficio, l’autorità pubblica dava garanzie sulla sua qualità giuridica, opportunamente convalidando la propria dichiarazione in genere con il sigillo. Tale „littera‟, come è facilemente comprensibile, assumeva particolare rilevanza nelle convenzioni e trattati tra Comuni, per lo più rogati, in questo periodo di tempo, da notai. Qui interessa notare come nella „littera‟ si accenni, da un lato, alla „litteratura‟ del rogatario, dall’altro, e con maggior larghezza ed insistenza, sull’autenticità della persona e dell’elaborato del notaio stesso. Non è difficile concludere, in primo luogo, che, se non si dimentica la possibilità di un esame della indubbia provenienza, grazie all’accenno alla „litteratura‟ del notaio – che non può essere altro che una analisi della sua grafia – l’accento sia posto sull’altra condizione cui si intende dare garanzia; in secondo luogo, come le due condizioni siano tenute ben separate, legando l’una soltanto alla genuinità, l’altra alla legittimità della provenienza, tanto che, in prosieguo di tempo, si potrà pervenire a due istituti giuridici diversi ancora ben vivi nella prassi e nella dottrina giuridica: la legalizzazione e l’autenticazione.

Gli è che in Rolandino permane una notevole diffidenza nei confronti della „comparatio litterarum‟, tanto che nella „Summa‟, dopo aver ripetuto le stesse considerazioni che il legislatore giustinianeo aveva condensato nella [p. 496] Novella 73, conclude: „ex semiplena colligitur fides … et est ratio quia soli comparationi non sit adhibenda plena fides quia litterarum dissimilitudinem sepe quidem tempus facit, item calami et atramenti mutatio aufert per omnia similitudinis‟42.

Del resto Baldo, che pur scrive più tardi, forse intorno al 1380, non esce dalla stessa linea interpretativa quando afferma: „originalis scriptura dicitur quae ex se oritur‟43. Definizione senza dubbio suggestiva ma come la precedente soprattutto improntata a dar rilievo alla provenienza diretta senza apparente preoccupazione alcuna degli elementi atti a dar garanzia della „publica fides‟. Interpretazione confermata dalla constatazione che in un altro dei „commentaria‟ afferma testualmente: „scias quod haec nomina equipollent scilicet originale, prothocollum, matrix, scriptura et fontalis scriptura …‟44 soprattutto se si pensa che proprio sulla possibilità di considerare originale l’imbreviatura si svilupperà, in seguito, la discussione nella dottrina. Possibilità in genere negata, per il fatto che essa non è normalemente completata da tutte le publicationes necessarie, anche contro il parere di Bartolo. Il quale ultimo, da parte sua, accettando di considerare originale l’imbreviatura, dà chiaramente a vedere di non voler ancora assumere, quale condizione indispensabile della originalità del documento, la presenza degli elementi determinanti per fargli riconoscere la pubblica fede.

Ma c’è di più. Se, come si è cercato di illustrare, è soprattutto sul concetto di autentico che si affissa l’attenzione, la ricca documentazione offerta dai „Libri Iurium‟, pubblicati finora solo in parte, permette un’altra interessante constatazione. La stessa natura dei „Libri‟, infatti, per la ricchezza delle successive trascrizioni di cui ci si preoccupa di giustificare l’attendibilità ed il variare delle convalidazioni, oltre a rendere possibile il ricostruire la tradizione del documento, permette anche di seguire la parabola del variare del valore semantico dei termini usati. Il fatto che maggiormente colpisce è costituito dalla constatazione che i cancellieri affermano di aver trascritto i documenti traendoli dagli autentici degli stessi, anche quando al moderno diplomatista risulterebbero originali. E’ utile, a questo proposito, per illustrare come i cancellieri del sec. XIII e quegli stessi del secolo seguente rimangano fedeli all’attenzione prestata alla condizione di autenticità, il confronto tra due tipiche convalidazioni; l’una così recita: „S.T. Ego Anselmus de Castro notarius hoc [p. 497] exemplum de mandato et precepto Domini Filipi Vicedomini Janue potestatis extraxi et exemplavi ab autentico publico sigillato duobus sigillis cereis predictorum dominorum Petri et Sofredi sicut in eo vidi et legi, nihil addito vel diminuto et ad ipsum corroborandum iussu dicti Potestatis me subscripsi; anno Dominice Nativitatis MCCXLIII, mense madii, indicione prima.‟45; l’altra si esprime nei seguenti termini: „S.T. Anthonius de Credentia quondam Conradi publicus imperiali auctoritate notarius et Comunis Janue cancellarius predicta omnia et singula extraxi, sumpsi, transcripsi et exemplavi de quodam publico et autentico privillegio Regie Maiestatis Ungarie non viciato, non abraso nec in aliqua sua parte suspecto, prout in eo vidi et legi, nihil addito vel diminuto quod mutet sensum vel variet intellectum nisi forte littera, sillaba, titulo seu puncto abreviationis, quod quidem privillegium munitum erat sigillo magno Regie Maiestatis Ungarie in cera alba pendenti in cauda duplici pergamene in quo quidem sigillo … etc. etc.46. Dalle convalidazioni risulta evidente che i documenti trascritti possiedono ambedue i requisiti che l’Urkundendenlehre richiede perchè si possa parlare di originale. Il documento, infatti, che porta i sigilli, descritti con accuratezza dal cancelliere trascrittore, non può essere che quello proveniente dalla „manus‟ dell’estensore. In altre parole la scrittura che il cancelliere indica come autentica è anche originale ma viene posta in rilievo solo l’autenticità.

A riprova di quanto esposto, uscendo un poco dai confini di Genova, si potrebbe aggiungere che, ad esempio, anche per il famoso „Registrum Magnum‟ del Comune di Piacenza si può pervenire alla stessa constatazione. Infatti per la quasi totalità delle convalidazioni dei documenti trascritti, i notai riferiscono di aver estratto la copia da documenti autentici, mentre il diplomatista moderno, fedele ai dettami dell’Urkundenlehre, parlerebbe certamente di originali47.

Anche in questo caso non si tratta di inesattezza o di imprecisione, come sembra pensare il Sickel, ma semplicemente dell’espressione corrispondente al pensiero dell’epoca, in cui, con tutta evidenza, il carattere dell’autenticità, per le ragioni che si è creduto di ravvisare e sommariamente descrivere, prevale ancora su quello dell’originalità.

Non stupisce, allora, che il De Unzola, uno dei famosi commentatori di Rolandino, possa pervenire alla seguente conclusione: „scriptura autem tabellionis [p. 498] tunc est authentica et fide digna quando publicationes solemnes et necessarias in ea ponuntur et quando originalis est‟48. In questa accezione il termine autentico riassume in sè quello di originale, in quanto è considerato tale il documento che porti le „solemnes publicationes‟ ma che, nel contempo, sia anche originale. Non si trascura il carattere dell’originalità ma lo si pone come corollario di quello dell’autenticità. La situazione, pertanto, potrebbe dirsi capovolta rispetto a quella prospettata dalle definizioni dell’ Urkundenlehre.

La filologia classica, partendo da ben altri presupposti, in quanto non dispone di originali ma ad essi dopo il Lachmann piuttosto tende, attraverso la complessa procedura che va dalla recensio alla emendatio, si è spesso valsa, con notevole vantaggio, di quello che comunemente viene detto l’„accessus ad auctores‟. Attraverso lo studio dei vari accessus, infatti, è possibile rendersi conto, come hanno dimostrato il Prikocki49, il Quain50 e l’Hunt51, del processo mentale che ha accompagnato il presentatore o l’editore nel suo operare.

Ora pare molto interessante avvalersi di una tale metodologia, cosa che non risulta ancora tentata, anche nei riguardi dell’ accessus usato dagli autori di opere giuridiche ed in particolare di quelle facenti capo alla „ars notaria‟ per l’epoca corrispondente agli anni in cui operano il De Credenza e lo stesso De Unzola. Si vede, allora, come Pietro Boattieri52 e lo stesso Pietro de Unzola53 usino un tipico accessus al commento alla „Summa‟ di Rolandino che, partendo dalla affermazione che l’„author primarius et immediatus‟ dell’opera è Dio stesso e che Rolandino non è che il „compositor et promulgator‟, passa ad illustrare l’„intentio‟ e „cui parti philosophiae‟ appartenga l’opera.

Dall’author, quindi, discende l’auctoritas del „promulgator‟, in perfetta identità di veduta con Giovanni Balbi da Genova che, pochi anni prima, scriveva nel suo „Catholicon‟: „authenticum id est auctoritate plenus vel fide dignum cui primo credebatur ex sua dignitate‟54.

[p. 499] Questa la situazione a Genova ancora alla fine del sec. XIV testimoniata dalle convalidazioni del ricordato cancelliere Antonio de Credenza, che roga ancora nei primi anni del Quattrocento. Si sarà notato, tuttavia, come, sia Anselmo di Castro sia Antonio di Credenza, l’uno nel secolo XIII l’altro nel XIV, pur restando costanti nel privilegiare la condizione dell’autenticità, facciano seguire o premettano all’aggettivo authenticum quello di publicum. Naturalmente qui non si tratta di un riferimento al documento publicum come testimonianza di negoziazioni di diritto pubblico in contrapposizione a negoziazioni di diritto privato, ma di documento pubblico in quanto degno di fede publica. Tale precisazione non era in precedenza usata e c’è da chiedersi anche in questo caso se i notai cadano in un pleonasmo, in quanto proprio all’autenticità è legata la pubblica fede, o se la precisazione non risponda piuttosto a qualche sollecitazione di carattere giuridico-diplomatico. Indubbiamente i rogatari, in questo periodo, devono tener conto dell’insorgere di nuovi problemi relativi alla tradizione del documento ed alla connessa indispensabile necessità di precisazione dei termini usati: si diffonde l’uso nei Comuni dei „Libri Jurium‟, dei cartulari di imbreviature dei registri per gli acta dei Comuni stessi, da cui vengono estratte copie degne di fede.

D’altra parte il travaglio dottrinale e la Scuola di Bologna fanno sentire fortemente la loro influenza in Genova, e, in questa, si ha notizia della permanenza di famosi giuristi come Martino da Fano. Nè si può trascurare l’ambiguità insita nello stesso verbo „augere‟ che sta alla base dell’astratto auctoritas e che si riflette sul sostantivo auctor e sull’aggettivo authenticum che può indicare sia l’autenticità critica sia la legittima, non avendo la lingua latina nè l’italiana una distinzione, come quella tedesca, tra authentie e authenticität.

Si può pensare, pertanto, che la precisazione ricordata intenda distinguere il documento autenticato dalla manus publica e dalla stessa anche scritto da quello degno di pubblica fede semplicemente perchè convalidato dalla mano pubblica.

Il problema si chiarisce quando si constata che Rolandino, il quale, come si è gia accennato, quando tratta „de exemplificationibus‟ accenna sempre all’exemplar, nominandolo come „originale et authenticum‟ e dando l’impressione di tenere ben distinte le due condizioni, è, invece, di una estrema precisione quando definisce l’„instrumentum publicum‟, del quale così illustra i caratteri: „Publicum instrumentum est illud quod est scriptum manu publica, [p. 500] scilicet tabellionis, si redactum est in publicam formam‟55. Dove i caratteri sono determinati, da un lato, dalla provenienza diretta e senza intermediari dall’autore della documentazione, dall’altro, dalla publica forma capace di dar prova della legittima provenienza. C’è nel riferimento alla manus della scrittura la preoccupazione dell’originalità cui si dà netto rilievo accanto a quella della „publica forma‟.

Di questo travaglio e della progressiva acquisizione di consapevolezza da parte dei cancellieri della necessità di chiarire il valore, sia diplomatico sia semantico, del termine autentico, sono anche indici, se non si va errati, le convalidazioni che essi usano quando si tratti di convalidare la trascrizione nei „Libri‟ di documenti tratti „de registro authentico Comunis‟ che attentamente distinguono dall’altra „de registro et authentico‟, quando sia palese che nel registro già sia stata trascritta una copia, come risulta evidente per il fatto che vengono coscienziosamente riprodotte le sottoscrizioni dei notai che la copia stessa hanno convalidato al momento della sua stesura56.

Solo nella prima metà del secolo XV si nota però un deciso mutamento negli usi della Cancelleria. E’ l’epoca dei grandi cancellieri, notai e umanisti, Iacopo Bracelli, Giorgio Stella. Il primo autore del „De bello Hispaniensi‟, il secondo famoso annalista e scrittore, con Giovanni, degli „Annales Genuenses‟.

Iacopo Bracelli, di cui i „Libri Iurium‟ conservano numerose convalidazioni di trascrizioni, usa normalmente, non solo per indicare il documento da cui ha tratto la copia ma anche per altri che l’odierno diplomatista considererebbe senz’altro originali, il termine „publicum‟, come risulta dalla seguente convalidazione: „S.T. Iacobus de Bracellis publicus imperiali auctoritate notarius et Excelsi Comunis Janue cancellarius hic interfui iussusque rogatus ededi hoc publicum documentum quod tamen aliena manu fideliter describi curavi et modo id ad faciendam rei geste fidem nomen ac signum meum hic aposui‟57.

In modo analogo si regola Giorgio Stella che, oltre tutto, anche nei citati „Annales‟ ha occasione di ricordare importanti convenzioni, stipulate dalla Republica in forma notarile e che, ad esempio, per quella con il Re di Francia del 1396, si esprime in questi termini: „ut de his omnibus per strumenta publica scripta manu Antonii de Credentia, Janue Cancellarii, et alterum eiusdem tenoris manu Simonis Semini ultramontani notarii …‟58.

[p. 501] Sembra quasi che questi cancellieri, che non dimenticano mai di essere notai, vogliano rifarsi, sorpassando dubbi, incertezze e indecisioni che ormai affiorano, alla purezza della dottrina Rolandiniana.

Nell’adottare la designazione di instrumentum publicum in luogo di quella di authenticum sia pure accompagnato dal publicum, pertanto, si deve riconoscere l’intento della ricerca di un maggior equilibrio tra le due condizioni di originalità e di autenticità, riconoscendo come a quest’ultima si fosse fino a quel momento dato un peso eccessivo. Una nuova filosofia apre la via alla critica storica e filologica, gli studiosi analizzando i documenti e le date si sforzano di mettere a punto anche una epistemologia della verificazione. Lorenzo Valla, nel 1440, dimostra la falsità della pseudodonazione di Costantino, ma, cosa più interessante ancora, il fatto che egli, pochi anni dopo, sia nominato segretario apostolico da Nicola V indica come sia tutta una mentalità che evolve e che autorizza la critica nascente a rimettere in causa un documento. Il centro di gravità dell’accertamento della credibilità si sposta su nuovi obiettivi, cercando di fondarsi sul presupposto dell’autonomia funzionale del documento.

Lo stesso Valla che, pur rifacendosi a Festo Pompeo, non dà una definizione molto perspicua di exemplar e di exemplum in quanto scrive: „exemplum est quod sequamur aut vitemus, exemplar ex quo simile facimus‟59, tuttavia mostra di essere consapevole di quanto, nel primo caso, possa aver importanza una pressione che venga dall’esterno, e di come, nel secondo, valga il convincimento interiore dell’interprete che è condotto ad accettare una documentazione che ritiene valida.

Gli umanisti curiosi della Religione Romana, come il Boccaccio, o che, come il Petrarca e Poggio, si appassionano per il ritorno a forme scrittorie del passato, diventano capaci di cogliere le finezze di una grafia, di pervenire a dei raffronti, di istituire un processo critico. Il desiderio di rivivere la storia attraverso il documento dà vita ad una nuova epistemologia della documentazione come volontà di enucleare e potenziare i fattori di credibilità insiti nel documento stesso e nella sua stessa struttura, al di fuori di ogni artificioso sostegno esterno, e di pervenire a descrivere la parabola della sua tradizione fin dal momento dell’origine. Di tale progressiva acquisizione di autonomia strutturale del documento, legata alla capacità di dare prova della propria indubbia, diretta e nello stesso tempo legittima provenienza, è certo consapevole Giovanni Giacomo Cane, il già ricordato autore del „De tabellionibus libellus‟60, [p. 502] il cui sguardo comincia a volgersi con più attenzione verso l’accertamento di una indubbia provenienza per cercare nella grafia, nella lingua, nelle formule, nella storia, con mezzi sia pure ancora primitivi, le prove della credibilità. E proprio l’introduzione al suo „libellus‟, scritto intorno al 1480, dà l’esatta sensazione di un netto movimento di pensiero anche in campo documentario.

L’introduzione riproduce, si potrebbe dire, nella sua struttura, l’accessus cosiddetto „delle quattro cause‟; in essa nessun accenno ad una aucthoritas superiore da cui discenda la possibilità e la capacità di affrontare il compito propostosi, ma la discussione delle finalità che l’autore intende perseguire. Non più solo una „intentio‟, che di per sè potrebbe anche essere occasionale, ma „cause‟ che rendono necessaria oltre che opportuna l’opera. Tra queste è soprattutto quella „finale‟ che spiega come sempre meglio si vadano chiarendo agli occhi stessi del dottrinario i compiti e le potenzialità della scrittura documentaria e come questa si stia svincolando, nei limiti del possibile, dalle forme fiduciarie. Scrive, infatti, G.G. Cane: „ad quem finem inventus est usus tabellionatus et mos conficiendorum instrumentorum et ista ex supradictis percipitur evidenter primum enim hoc inventum est ad cautelam praesentium et quae facilius meliusque probantur quamque per ipsos testes qui quandoque morte vel absentia seu alia difficultate subtrahuntur‟61. Dove l’accenno ai mezzi che „facilius meliusque probantur‟, più dei testimoni, appare veramente significativo e dà la sensazione della acribia con cui si tende all’autonomia del documento, come a qualcosa che possa di per sè, grazie ai propri elementi, avere la capacità di dare testimonianza e di ottenere pubblica fede. Ma, l’autonomia funzionale del documento per affermarsi e, nello stesso tempo, rispondere all’istanza di supplemento di critica avanzata dal mondo culturale, doveva necessariamente far perno sulla condizione di originalità, vale a dire sulla provenienza certa e diretta dall’autore della documentazione. Ogni provenienza indiretta, infatti, che avvenga attraverso intermediari, se pur legittima, non può mai essere autonoma in quanto necessariamente legata a precedenti e presupposti. Solo la provenienza diretta, del resto, poteva offrire certi elementi di critica esclusi, per forza di cose, nel caso della sua assenza.

Di qui la progressiva ricerca di originalità del documento nella sua funzione di testimonianza e la tendenza a riassumere nel concetto stesso anche la condizione di autenticità, qualora si intendesse riconoscere al documento fede pubblica e forza di prova.

[p. 503] Nei citati „Libri Jurium‟ i Cancellieri, alla fine del sec. XV, nelle convalidazioni, riferiscono sempre di aver trascritto documenti „originali‟ e forniscono tali descrizioni degli stessi da non lasciar dubbi sia sulla loro diretta provenienza dall’autore della documentazione sia sugli elementi atti a dar loro fede pubblica.

Si vedano, ad esempio, le convalidazioni di trascrizioni fornite da Gottardo Stella, un altro degli appartenenti alla famosa famiglia, sempre anche quando si riferiscono ad originale ch’egli stesso ha redatto in pubblica forma, come questa: „Per me Gotardum Stellam notarium et cancellarium transcriptum ex originali rogato per me fideliter‟62.

Altrettanto appare dalle convalidazioni di un altro cancelliere famoso, Benedetto da Porto, ricordato nel testamento di Cristoforo Colombo, che seguono il seguente schema: „Transcriptum est fideliter ab originali suo in pergameno cum sigillo in cera expresso in stagneo loculo incluso pendenti per me Benedictum de Porto notarium publicum et Excelsi Comunis Janue Cancellarium privilegiorum custodem‟63.

Così, poco piu tardi, il grande Annalista Agostino Giustiniani darà prova costante di saper usare esattamente i termini che l’evoluzione dottrinale e culturale gli ha ormai reso familiari. Ricordando, infatti, il famoso diploma di Corrado concedente a Genova la facoltà di battere moneta, egli scrive: „l’autentico del quale privilegio si conserva nel Registro del Comune, l’originale col sigillo d’oro fu mandato ai consoli, per più onore alla città, col proprio cancelliero‟64.

Non è che questo capovolgimento nel contenuto dei concetti, rispetto alla prima metà del sec. XIV, si sia verificato repentinamente. Deve essere necessariamente avvenuto in un certo lasso di tempo e rispecchiare un travaglio delicato e complesso. Ne è interessante indice una pagina del tante volte citato Giovanni Giacomo Cane, dove si discute, in contradditorio con Bartolo, la possibilità di considerare originale l’imbreviatura e dove si conclude che la stessa, pur essendo di provenienza diretta dal rogatario, non può essere considerata tale perchè il più delle volte mancante delle necessarie „publicationes‟, che sole possono dar fede pubblica al documento65. Come si vede per il giurista comasco l’instrumentum non può considerarsi originale ove manchi una [p. 504] delle due condizioni cui si è tante volte accennato ed il concetto di originale comprende ormai in sè anche quello di autentico. Il problema, alla sua epoca, era pertanto posto negli esatti termini in cui, tanti anni dopo, doveva riproporlo il Bresslau.

E, riallacciandosi a quanto si è avuto occasione di esporre all’inizio, ben si può dire che l’espressione usata dal Bautier di „acta instrumentaire‟ colga l’essenza del documento quale viene definito dall’Urkundenlehre, soprattutto ove si ricordi che proprio al travaglio elaborativo della dottrina dell’instrumentum ed alla Ars Notaria si deve in gran parte la definizione dei concetti di originalità e di autenticità.


1 R.H. Bautier, Leçon d’ouverture du cours Diplomatique a l’École des Chartes, in „Bibliothèque de l’Ecole des Chartes‟, t. CXIX, 1961, Paris, 1962.

2 J. Ficker, Beiträge zur Urkundenlehre, Innsbruck, 1877–78.

3 Th. Sickel, Acta regum et imperatorum Karolinorum, Wien 1861.

4 H. Bresslau, Handbuch der Urkundenlehre, I Bd. (1. Aufl. 1889, 2. Aufl. 1911).

5 O. Redlich, Urkundenlehre Einleitung, Berlin 1907.

6 H. Steinacker, Die antiken Grundlagen der frühmittelalterlichen Privaturkunde, Leipzig-Berlin 1927, in „Grundriß der Geschichtswissenschaft‟, hg. v. Aloys Meister (Ergänzungsbd. 1).

7 R. Thommen, Diplomatik, Einleitung und Grundbegriffe (1. Aufl. 1906; 2. Aufl. 1913), in „Grundriß der Geschichtswissenschaft‟, hg. v. Aloys Meister (I. Reihe, Abt. 2 Urkundenlehre, 1. Teil).

8 Si veda A. de Boüard, Manuel de Diplomatique française et pontificale, I e II, Paris, 1929, e la bibliografia ivi citata.

9 Si veda C. Paoli, Programma scolastico di paleografia latina e di diplomatica, Firenze, 1898, e la bibliografia ivi citata; cfr. anche A. Pratesi, Genesi e forma del documento medievale, Roma, 1979, e la bibliografia ivi citata.

10 Th. Sickel, op. cit., 1, pp. 13–14.

11 H. Bresslau, op. cit., 2 Aufl., I, p. 78.

12 Ivi, nota 1.

13 Cfr. nota 11.

14 H. Bresslau, op. cit., 2 Aufl., i, p. 78.

15 Cod. Iustin. I, 23, 3.

16 Si pensi, tuttavia, alle difficoltà che ancora s’incontrano, come dimostrano le acute osservazioni del Tessier relative a certe affermazioni dello stesso Mühlbacher; cfr. G. Tessier, Diplomata Karolinorum. Comparation d’écritures, in „Bibliothèque de l’École des Chartes‟, t. XCVIII, 1937, pp. 5–12; dello stesso autore, Originaux et pseudo-originaux carolingiens du chartrier de Saint Denis, ivi, t. CVI, 1945–46, 1 pp. 35–69, e ancora, Les diplomes carolingiens du chartrier de Saint Martin de Tours, in „Mélanges d’histoire du Moyen Age dédiés à la mémoire de Louis Halphen‟, Paris, 1951, pp. 682–691.

17 Th. Sickel, op. cit. 1, p. 14. nota 4.

18 Cod. Iustin., Nov. 73, cap. III.

19 Cicerone, Topica, XIX, 73.

20 M.D. Chenu, Auctor, actor, autor in Arch. Lat. Medii Aevi (Bull. Du Cange), 1927, pp. 81–86.

21 R. Folz, Le souvenir et la legende de Charlemagne dans l-Empire Germanique Médiéval, „Belles Lettres‟, 1950, p. 213.

22 A. de Boüard, op. cit., II, p. 142, nota 1.

23 De Sacra Coena, ed. W.H. Beekenkam, La Haye, 1941.

24 Everardo di Béthune, Graecismus, c. 11; cfr. J. Wrobel, E.B. Graecismus in Corpus Gram. Med. Aev. vol. I, 1887.

25 Alano di Lilla, Opera omnia, ed. C. Wisch, Paris 1855.

26 Roberto di Melun, Oeuvres, Questiones de divina pagina, ed. R.M. Martin, Louvain 1938.

27 Abelardo, Theologia Summi Boni, ed. H. Ostlender, Beiträge, XXV, Munster, 1939, pp. 29–31.

28 Archivio di Stato di Genova, Manoscritti, Caffari Historia Ianuensium, c. 9; cfr. anche trad. di C. Roccatagliata Ceccardi e G. Monleone, Genova, 1923, p. 25, e la bibliografia ivi citata.

29 Cfr. C. Imperiale di Sant’ Angelo, Codice diplomatico della Rupubblica di Genova, in „Fonti per la Storia d’Italia‟, Roma 1936, p. 81 e segg. e la bibliografia ivi citata, nonchè la tradizione documentaria.

30 A. de Boüard, op. cit., II, p. 142 e nota 1.

31 Cfr. G. Costamagna, A proposito di alcune convenzioni medioevali tra Genova e i Comuni Provenzali, in „Atti del I Congresso Storico Liguria-Provenza‟, Bordighera, 1966, p. 131 e segg.

32 Ivi, passim.

33 G. Costamagna, Il notaio a Genova tra prestigio e potere, Consiglio Nazionale del Notariato, Roma, 1970, p. 145 e segg. e la bibliografia ivi citata.

34 Ibidem.

35 Ivi, p. 55.

36 Ivi, p. 102.

37 Ivi, p. 54.

38 Ivi, p. 59 e segg.

39 G. Gussdorf, Les origines des sciences humaines, Paris, 1967, p. 239 e segg.

40 H. Bresslau, op. cit., p. 12, nota 4.

41 Rolandinus, Summa totius Artis Notariae, Venetiis, MDXLVI, t. I, f. 396 a; ed. anast., Consiglio Nazionale del Notariato, Roma 1977.

42 Ivi, f. 398 a.

43 Baldo Ubaldi Perusini, Dilucida ac subtilissima commentaria super primo Decretalium, Venetiis, 1595; ed. anast., Torino, 1931, c. 231 a, 10.

44 Ivi, c. 200 a, 23. Per la discussione cui si accenna, si veda di seguito il testo e la nota n. 65.

45 Archivio di Stato di Genova, Manoscritti, Liber Iurium VII, c. 217.

46 Biblioteca Universitaria di Genova, Liber Iurium, B-IX-3, c. 350 a.

47 Cfr. Biblioteca Comunale di Parma, Registrum Magnum Communis Placentiae, ed. A. Corna, F. Ercole, A. Tallone, Il Registrum Magnum del Comune di Piacenza, I, solo finora pubblicato, Torino, 1921, „Bibl. Soc. Stor. Subalpina‟, XCV, n.s. 1.

48 Pietro de Unzola, Apparatus Notularum, in Rolandinus, Summa …, cit., I, f. 406 a.

49 G. Prikocki, Accessus Ovidiani, Accademia Polacca delle Scienze, s. III, Cracovia, 1911, pp. 65–126.

50 E.A. Quain, The Medievalaccessus ad auctores‛, in „Traditio‟, III, 1915, pp. 215–264.

51 A.W. Hunt, The introduction to the Artes in the XII century, in „Miscellanea in onore di R. Martin‟, Bruges, s.d. ma 1951.

52 Pietro Boattieri, … Expositio in Summa Artis Notariae D. Rolandini, in Rolandinus, Summa … cit. I, f. 406.

53 Cfr. Diction. Theol. Cath., 2585.

54 Rolandinus, Summa …, cit., I, f. 352. Per il progressivo formarsi e fissarsi dei diversi valori semantici in relazione ai termini indicanti i vari aspetti della tradizione del documento in altre cancellerie, si veda anche: A. Hessel, Zur Geschichte der Regesten, in „Archiv für Urkundenforschung‟, X, 1928, pp. 217–225, e H. Zatschek, Studien zur Mittelalterlichen Urkundenlehre: Konzept, Register und Briefsammlung, Berlin-Prag-Leipzig, Wien, 1929.

55 Rolandinus, Summa …, cit. I.

56 Cfr. ad es. Archivio di Stato di Genova, Manoscritti, Liber Iurium VII, c. 251.

57 Ivi, c. 183.

58 Cfr. G. Stella, Annales Ianuenses, a cura di G. Petti Balbi, in „Raccolta degli storici italiani dal Cinquecento al Millecinquecento ordinata da L.A. Muratori‟, t. XVII, parte II, Bologna, 1975, p. 219.

59 L. Valla, De elegantia linguae latinae, edit. Basiliensis anno MDXL collecta, VI, p. 214; ed. anast., Torino, 1962.

60 I.I. Canis, De tabellionibus libellus, In Rolandinus, Summa …, cit., II, f. 100 e segg.

61 Ivi, f. 104.

62 Archivio di Stato di Genova, Manoscritti, Liber Iurium III, cc. 71, 72, 205, 206.

63 Ivi, c. 248.

64 A. Giustiniani, Castigatissimi Annali della Excelsa e Illustrissima Repubblica di Genova, 1537, c. XXXVII, cfr. anche ed. Spotorno, Genova, 1834, p. 173.

65 I.I. Canis, De tabellionibus libellus, in Rolandinus, Summa …, cit. II, f. 111 a.