École des chartes » ELEC » Notariado público y documento privado: de los orígenes al siglo XIV » Il notariato nell’Italia Settentrionale durante i secoli XII e XIII
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[p. 991] Il notariato nell’Italia Settentrionale durante i secoli XII e XIII

Queste note hanno precisi limiti nè tragga in inganno il titolo perché, se è vero che il notariato sviluppatosi nell’Italia Settentrionale, esclusi la Valle d’Aosta, l’Alto Adige e le Venezie, costituì, se così può dirsi, il modello d’esportazione in gran parte dell’Europa del notariato, è altrettanto vero che sia nell’Italia Centrale sia in quella Meridionale l’istituzione si sviluppò con varietà del più alto interesse.

Chi affronta lo studio di documenti notarili dell’Italia Settentrionale alla fine del sec. X o all’inizio del seguente potrebbe essere indotto a pensare di trovarsi di fronte ad un sistema documentale ben consolidato, articolato, in genere, su due redazioni della «charta» succedentesi nel tempo: la «notitia» o «rogatio», il più delle volte dorsale, ed il «mundum» nella sua tipica struttura. Struttura che ricalca quella del documento Giustinianeo con la caratteristica «completio» che ancora nella «charta» del sec. IX si trova perentoriamente richiesta a pena di nullità1.

[p. 992] Situazione che si ripropone in tutta la zona considerata, anche in quelle contrade, come quelle del basso Piemonte o della Liguria, dove la contiguità con la Francia e, soprattutto, con la Provenza, dove vigeva il Diritto Teodosiano ed il documento notarile non conosceva la «completio» giustinianea, potrebbe far pensare diversamente2.

Così facendo, tuttavia, rischierebbe di cadere in due errori. Da un lato, cioè, trascurerebbe una serie di sintomi premonitori di una inarrestabile evoluzione, ignorando il profondo mutamento in atto di tutta la vita culturale, politico-sociale ed economica. Condizione, quest’ultima, che non può non incidere sulla diplomatica stessa del documento notarile. E’ l’età di Abelardo, del pensatore del «sanus intellectus». Sono gli anni in cui riprende vigore lo studio del Diritto Romano. Ed è l’età del primo formarsi a stato di Nazioni che poi saranno regni famosi, del consolidarsi di autonomie cittadine, che poi diventeranno i Comuni italiani dalla gloriosa storia, l’età anche, proprio nell’Italia Settentrionale, del dispiegarsi appieno di una nuova economia non più terriera ma mercantile.

Da un altro lato dimenticherebbe che le «chartae» che egli sta studiando, per lo più provenienti da archivi monastici, sono, per così dire, molto monocordi: vendite e permute di terre, donazioni ad enti ecclesiastici e poco d’altro.

Se si tengono presenti questi molteplici e diversi fattori, non sfuggirà certamente il perché della graduale sparizione delle scritture tachigrafiche dalle «notitiae» che stanno assumendo un più preciso valore giuridico3, l’apparire quà e là, a Genova, a Milano, a Bologna, illustrati dalla Baroni4, di documenti per lo più detti «brevia», da non confondersi con il «breve memoratorium», che conservano [p. 993] alcuni elementi delle «chartae» ma altri trasformano o trascurano, il diffondersi dell’uso delle «rogationes» autenticate conservate in luogo della «charta» stessa5, il moltiplicarsi di nuove fattispecie negoziali nelle zone di più matura esperienza mercantile6, il baluginare delle prime rinunzie ai benefici riconosciuti dal diritto romano7, fattori tutti che spiegano la necessità di un documento più agile che dimenticando simbolismi e formalismi possa essere prova di diritti sulla base del semplice «sanus intellectus», ma che chiariscono anche il perfezionarsi della datazione quando si tratti di negozi prevedenti scandenze precise, la necessità della conservazione delle prime redazioni del documento da parte del rogatario che di fronte al numero dei documenti rogati, alla varietà delle rinunzie, alla precisione delle scadenze non può fare a meno di far ricorso ad elementi mnemonici scritti.

Non si dimentichi che di fronte all’ordinamento giuridico è ancora lui, il rogatario, il migliore teste e la prova scritta non trova sempre consenso, mentre il notaio può essere chiamato a confermare a viva voce quanto egli ricorda e di cui può trovare memoria nei suoi appunti.

Giustiniano al capo III della Novella 73 aveva fatto scrivere: «Tam nos quidem existimavimus ea quae viva dicuntur voce et cum iureiurando, haec digniora fide iudicatis prudentiae simul atque religionis ut veracibus potius pro talibus credat et nos quidem secundum hoc modum existimavimus oportere probari fidelia documenta»8. E [p. 994] ancora più di sette secoli dopo Rolandino affermava, nella sua «Summa», trattando delle prove possibili fornite dalla «comparatio litterarum», che da questa: «semiplena colligitur fides… et est ratio quia soli comparationi non sit adhibenda plena fides quia litterarum dissimilitudinem sepe quidem tempus facit, item calami et atramenti mutatio aufert per omnia similitudinis»9.

Si perfeziona così l’«instrumentum» che a poco a poco sostituisce la «charta», e nasce l’imbreviatura.

Di questi fatti possiamo anche, per così dire, precisare l’atto di nascita, grazie a recenti studi della Baroni e miei10. Questo è da porsi intorno ai primi decenni del secolo XII. Intorno ai primi decenni del sec. XII per Bologna11, poco oltre per Genova12, pochi anni ancora dopo per Milano13. Naturalmente a Bologna si perviene a questo risultato partendo da vie, usi, tradizioni, diversi da quelli delle altre città. Usi e costumi che non è possibile esaminare nel dettaglio in questa sede ma il risultato appare identico.

Altrettanto può dirsi per l’introduzione dell’uso dell’imbreviatura.

Anche in questo caso la fortunata conservazione delle imbreviature genovesi ci permette di precisare con buona approssimazione gli anni in cui dovette affermarsi l’uso di raccogliere in un cartularius o registro le imbreviature. Giovanni Scriba, l’autore del più antico cartolare che oggi si conservi, afferma, infatti, in una sua «charta» del 1156 di averla estratta da una imbreviatura conservata nel registro del proprio padre premorto14. Ora, poiché le ultime notizie dorsali che sia stato possibile rinvenire a Genova risalgono agli anni intorno [p. 995] al 1120, è presumibile che proprio tra tale data e la metà del secolo sia possibile porre l’introduzione del nuovo costume.

Come si è detto, le più antiche imbreviature si conservando soltanto a Genova, anche se si hanno notizie precise sul loro contemporaneo uso anche per altre città, come Piacenza15.

Da una loro attenta considerazione si possono trarre alcune osservazioni di grande interesse per la storia del notariato. Innanzi tutto, fin dai primi esempi, risalenti, come è risaputo, agli anni intorno al 1150, appare quella che potrebbe dirsi la straordinaria polifonicità di questa documentazione rispetto a quella dei cartari monastici, dai noli marittimi alle «accomendaciones», alle «societates maris», ai cambi marittimi e terrestri, la presenza di rinunzie ai benefici riconosciuti dal diritto romano, le testimonianze di una vita sociale ricca e multiforme intorno ai mercati ed in vista delle grandi fiere internazionali ed il ricordo appassionante di una vita politica tutta tesa verso l’autonomia. Si aggiunga quella che potrebbe quasi dirsi una specie di frenesia contrattuale e documentaria per cui, per esempio, a Genova si ricorre al notaio anche per la vendita di un sacco di castagne secche.

Di fronte a questa ricchezza di fenomeni, alle novità giuridiche che essa inevitabilmente comporta, alla enorme quantità di imbreviature, non si può fare a meno di chiedersi chi le rogasse.

Avrebbe potuto sempre far fronte a tutto il complesso di incombenze cui si è accennato sempre e soltanto il «notarius Sacri Palacii» con la sua ormai anchilosata utensileria documentale? O non si deve, piuttosto, pensare al progressivo affermarsi accanto alla categoria dei «notarii Sacri Palacii» di un’altra categoria di rogatari che traendo la loro credibilità dalla sorgente auctoritas delle nuove autonomie comunali, affiancasse la prima e sopperisse alle necessità del momento, venendo a gettare le basi di una «consuetudo»?

Già nel sec. X non è difficile trovare rogatari che si qualificano «notarius Mediolanensis» o «Papiensis»16. Più tardi sono molti i [p. 996] notai che si qualificano semplicemente «notarius», anche se, in qualche caso, dietro tale qualifica può nascondersi un «notarius Sacri Palacii»17, ed è anche possibile il contrario.

Del resto l’interessamento del Comune al controllo di una funzione sociale quale quella notarile, di cui per di più si serve all’inizio per confortare la credibilità delle proprie decisioni, è indiscutibile18.

Per restare a Genova, non si può non constatare come il Comune cerchi di intervenire pesantemente nella vita del notariato prescrivendo dapprima l’iscrizione dei testimoni in un particolare, oggi diremmo, albo, poi costringendo i notai che rogano atti in nome e per conto del Comune ad usare in luogo del loro signum personale un signum communis19. Lo stesso uso dei cartolari imbreviaturarum anche se non si hanno prove che sia stato suggerito o imposto dal Comune, certo rispondeva a un insieme di necessità sociali cui il Comune non poteva restare sordo. Si pensi al fatto che col precedente costume di consegnare al destinatario insieme all’originale della «charta» anche la relativa «notitia» diveniva impossibile venire a conoscenza di clausole d’interesse non solo per i fattori del documento ma per tutto il contesto sociale come, ad esempio, le rinunzie ai benefici previsti dal Diritto Romano.

Non sono riuscito a rintracciare per i primi cinquant’ anni del sec. XII, vale a dire prima delle Constitutiones di Federico Barbarossa, testimonianze precise di notai che dichiarino esplicitamente di essere stati nominati dal Comune, e si potrebbe restare nel dubbio se non soccorressero, come meglio si vedrà in seguito, da un lato le sottoscrizioni di alcuni notai posteriori e la stessa dottrina.

[p. 997] Su tale situazione evidentemente ancora confusa, quasi magma incandescente, doveva improvvisamente abbattersi la richiesta di verifica di legittimità Federiciana.

A Roncaglia l’Imperatore, assistito dai famosi quattro dottori Bolognesi, emana la nota Constitutio: «Haec sunt iura regalia»20. Tra di essi la «Potestas constituendorum magistrorum ad iustitiam expediendam».

Si noti che la Constitutio non specifica come potestas quella «faciendi notarios», ma se si pensa che fin dal famoso «Capitolare missorum» di Carlo Magno il legislatore accomunava le sorti del notaio a quella degli «scabini» e degli «advocati», è facile pensare quale fosse l’intenzione dell’Imperatore e dei quattro dottori. L’ambiguità del dettato della norma poteva divenire un’arma, come in effetti divenne, nelle mani dei Comuni rivendicanti la propria autonomia ed il valore delle proprie tradizioni. Circostanza tenuta sempre in grande considerazione dalle nuove formazioni, se si pensa che a Genova già nel 957 la «Compagna» riusciva ad ottenere nel «Breve» omonimo il rispetto delle proprie costumanze. Sta di fatto che la Constitutio dovette riscuotere un certo successo, soprattutto se si pensa che era spesso confortata dal peso delle armi, se molti comuni cercano una delega imperiale per «facere notarios» unitamente ad altri «regalia», o che si assiste, fatto che viene a provare quanto si diceva in precedenza a proposito della nomina di notai operata dal Comune, alla richiesta da parte di rogatari che già rogavano regolarmente e di cui si possiedono anche i «cartulari imbreviaturarum» di essere «confermati» da parte dell’Impero. Così a Genova il notaio Bonvillanus21, Populo Bononiensi constitutus et ab Imperatore confirmatus»22. Anzi, proprio questa sottoscrizione così a Bologna, dove nel 1187 il notaio Anselmus si sottoscrive: «A Populo Bononiensi constitutus et ab Imperatore confirmatus»23. Anzi, proprio questa sottoscrizione [p. 998] così pubblicamente esplicita, a mio parere, sta a dimostrare come la diatriba tra Impero e Comune fosselimiti di competenze. Come, cioè, nella prassi, la discussione vertesse ormai più che altro sulla circostanza della possibilità per un notaio, nominato dal Comune, di rogare soltanto entro i confini riconosciuti alla Universitas stessa.

Forse l’indice più evidenziante di questa lenta quasi insensibile penetrazione nella prassi di usi notarili legati all’affermarsi progressivo dell’autonomia ci è fornito dai formulari rimastici e dalle opere relative all’esercizio dell’«Ars», per loro stessa natura strumenti di lavoro professionale, atti a suggerire modelli di documenti e perciò stesso raccoglienti tutto quanto intorno si facesse, si producesse, si scambiasse, aprendo bene gli occhi su ogni novità, considerando aspetti diversi, annotando ogni variante che il caso o la perspicacia degli uomini potesse offrire.

Tra questi di eccezionale interesse l’«Ars notariae» di Ranieri da Perugia, docente a Bologna, risalente, a quanto si ritiene, al 121624.

Egli non discute infatti, ma osserva alla rubrica «de officio notariae»: «Huius offici privilegium aliquando a domino papa, vel imperatore, vel spectabilibus regie curie viris, seu comitibus palatinis, aut alias a principe iurisdictionem habentibus, aliquando a rectoribus civitatum postulantibus erogatur… Expedit igitur, ut de quolibet privilegio a singulis personis facultatem habentibus notariis indulgendo subiciam seriatim exemplum»25.

Come si può constatare Ranieri offre un vero e proprio elenco di coloro che praticamente ai suoi tempi possono ormai nominare i notai, dal Papa all’Imperatore, dal Principe «iurisdictionem habentem» ai «rectores civitatum». Quadro che, sempre nella pratica, oltrepassava ampiamente quanto realmente si verificava nell’Italia Settentrionale in questo periodo storico dove è difficilissimo incontrare rogiti sottoscritti da rogatari di nomina pontificia e dove notai si qualificano o «Sacri Palacii», «Domini Imperatoris», «Aulae imperialis» o semplicemente «notarius».

[p. 999] Probabilmente egli, memore della sua provenienza perugina, da terra Pontificia, cioè, non si limitava a rispecchiare nel suo formulario la situazione bolognese, ma ampliava l’orizzonte di esame ad altre regioni oltre l’Italia Settentrionale, certo però portava alla ribalta problemi che non alla prassi, bensì alla dottrina toccava discutere.

Se nella prassi appare evidente l’avvenuto riconoscimento delle ragioni dell’autonomia ed il progressivo ampliamento dei limiti a questa riconosciuti, restava infatti a vedere come la dottrina facesse proprio il problema e come cercasse di dare ai vari quesiti una risposta razionale a giustificazione di quanto necessità culturali, storiche-politiche e l’indispensabile sintonizzazione con i principi teologici e giuridici imponevano.

E qui veramente doveva esercitarsi l’immaginazione, l’inventiva dei glossatori, specialmente dei Canonisti. Il problema era stato impostato dalla «scientia» dei quattro Dottori quando, nella ricordata Constitutio avevano incominciato a parlare di potestas.

La dottrina si rifà all’antica diade ma si trova di fronte ad una realtà di fatto ben diversa perché, dopo Gelasio, l’auctoritas universale non è più una. Ora sono due le auctoritates universali, l’Impero e il Papato, mentre nell’altro binario corrono potestates che intendono abbandonare e dimenticare ogni auctoritas all’infuori di se stesse.

Non è questa la sede, dopo gli studi del Gierke26, del Wolf27, dell’Ercole28, del Calasso29, del Mochy Honori30 per riesaminare la questione della priorità nell’affermazione del principio della «potestas superiorem non recognoscens». Contrariamente a quanto pensava il Savigny che considerava i glossatori dei teorici avulsi dal loro tempo, certo fu grande il contributo dei canonisti alla chiarificazione del problema, da Stefano de Tourney all’ignoto autore della Summa [p. 1000] «Et est sciendum» ad Uguccio da Pisa, il maestro di Innocenzo III, che si chiedeva, trattando delle potestates «superiorem non recognoscentes» «quid de Anglicis et Francis et aliis ultramontanis, numquid legantur legibus romanis et tenentur vivere secundum eas?»31, e cercando di risolvere il quesito facendo ricorso alla necessità dell’unità del potere, rispondeva: «Rex in ibi dicitur Imperator vel potest dici quod in qualibet provincia debet esse unus iudex principalis et maior»32, ad Alano di Lilla che perentorio afferma «quod dictum est de imperatore dictum habeatur de quolibet rege vel principe qui nulli subest»33, è tutto un rincorrersi di domande e risposte, di proposte e di rifiuti, di consensi e di respinte, dove, però, a poco a poco si fa sempre più luce il principio del «superiorem non recognoscens» che più tardi troverà pieno sviluppo in Jean de Blanot e in Guglielmo Durante.

Naturalmente la grossa questione relativa ai rapporti tra potestas e auctoritas si rifletteva sul rapporto tra lex e consuetudo, ed era questo rapporto che soprattutto in Italia Settentrionale interessava dottrina e prassi per gli evidenti risvolti che aveva sulla vita comunale in generale e sulla consuetudo cui i Comuni stessi si richiamavano per rivendicare la nomina dei notai. Per tutta la seconda metà del sec. XII la doctrina dei canonisti si batte in questo senso.

Già Laurentius Hispaniensis e la sua scuola, opponendosi al brocardo tradizionale che recitava: «Sicut solius principis est leges condere ita ipsius solius est abrogare», avevano sostenuto che «Le principis abrogatur per contrarium populi consensum»34. Poi era sceso in campo Uguccio da Pisa con la motivazione ispirata alla indispensabilità dell’«unus iudex» cui si è accennato35. Si è ancora lontani dalle conclusioni di Bartolo per il quale la «Civitas superiorem non recognoscens habet tantam potestatem in terra sua quantam [p. 1001] imperator in imperio»36, tuttavia indubbiamente il valore della consuetudine trova sempre maggiori consensi. In verità la glossa tradizionale non aveva seguito i canonisti sulla stessa strada. Lo stesso Azzone aveva occasione di scrivere: «item quilibet [rex] hodie videtur eandem potestatem habere in terra sua, quam Imperator»37 ma pone tutto il problema nelle «Questiones» da discutere. Del resto le condizioni storico-politiche erano anche profondamente diverse e se i canonisti erano spinti dalla necesità di chiarire i rapporti tra auctoritas e potestas nel momento in cui l’auctoritas universalis del pontefice si affiancava a quella dell’Impero, la glossa tradizionale, stretta intorno alla Scuola Bolognese, doveva pur tener conto che il campo di battaglia tra Impero e Comuni non era lontano.

I documenti del tempo in genere usavano la formula di qualificazione del notaio di cui si è avuto occasione di parlare. Forse il Piacentino, costretto ad emigrare a Montpellier, esagerava quando trattava i maestri della famosa Scuola di «Miseri Bononienses»38, tuttavia la loro posizione non era certo delle più tranquille. Anche l’Ars Notaria era, grosso modo, su queste posizioni, tuttavia, dopo qualche decennio da Azzone, è possibile notare che un certo cammino era stato compiuto soprattutto per quanto si riferisce al riconoscimento del valore della consuetudine.

Lo stesso Ranieri39, così attento, come si è detto, a quanto avviene praticamente intorno, poi, nell’ «Ars notariae», l’opera nella quale normalmente si affrontano i problemi imposti dalla prassi e si cerca di enunciare le soluzioni che questa può fornire, non discute i quesiti relativi ai limiti della «potestas faciendi notarios», nè i rapporti che questa legano alla «auctoritas» in nome della quale la «potestas» stessa agisce, nè tanto meno le giustificazioni che l’Autonomia di volta in volta allega a favore delle proprie pretese.

Solo una ventina di anni dopo Salatiele, al quale dobbiamo un’altra famosissima «Ars notariae», si porrà entro certi limiti questi problemi: [p. 1002] scrive egli, infatti, nella Rubrica «Quis possit esse notarius»: «Constituitur autem notarius non cuiusque et proprio motu et libera voluntate sed principis auctoritate vel comitis palatini vel cuiusquam alterius cui nominatim hoc princeps concesserit, et iste ubicumque locorum artem notarie poterit exercere, sed et constituitur auctoritate universitatis in suo municipio lege municipii concedente, et hic extra territorium illius municipii pro notario non habetur»40.

Si noti subito che per lui l’unica auctoritas universalis legittima, anche dopo Ranieri, è il «princeps» e per tale, viene chiarito nell’apparato41, deve intendersi l’Imperatore. Nè poteva essere altrimenti per chi come Salatiele, saldamente ancorato al Diritto Romano, si rifaceva al Digesto affermando: «sic exponitur in corpore iuris ubicumque de principe sit mentio»42. Pertanto, come è ben chiarito, il notaio nominato dall’Imperatore o dai suoi delegati poteva «officio suo uti» e «conficere instrumenta» «ubique locorum»43, mentre i notai nominati dalle «universitates» cui si fa cenno avranno tali possibilità solo nei limiti territoriali delle «universitates» stesse. C’è, quindi, il riconoscimento dell’autonomia comunale sulla base della consuetudine quando scrive: «consuetudo extra illius loci seu municipii territorium ceteros non ligat…»44, ma tale riconoscimento trova giustificazione soltanto nella legge romana in quanto si fa esplicito riferimento a Iust. 4,11,7, Cod. 1,17,1, e Dig. 8,4,13-145, mentre per la consuetudine stessa non vi è alcuna ricerca di ordine storico.

Quello che stupisce, invece, in un contemporaneo di Jean de Blanot e di Guglielmo Durante, è la mancanza di ogni accenno al pontefice come «auctoritas universalis» e ai principi «superiorem non recognoscentes».

In verità un accenno a questi c’è, in quanto si fa riferimento soltanto ai «subiecti» alla lex romana, e si è visto come ne trattasse [p. 1003] Uguccio46, ed è strano il caso del pontefice perché, dopo Ranieri, certo egli non poteva ignorare che da tempo nell’Italia Centrale esistevano notai di nomina pontificia.

Anche interessante è la giustificazione che si cerca di dare al fatto che i notai di nomina imperiale possano «suo officio uti ubique locorum» affermando come questa prerogativa sia giustificata «Cum principis consuetudo sit generalis et generaliter omnes liget»47. «Consuetudo generalis» da ricondursi alla auctoritas universale dell’Imperatore.

É ben bero che anche Ranieri riconosceva la prerogativa di rogare «ubique locorum» soltanto ai notai nominati dall’Imperatore quando nella sua «forma» di atto di nomina di notaio da parte della somma autorità scriveva: «dedimus ei igitur licentiam et plenam et liberam potestatem ubilibet exercendi recte nec non et fideliter omnia que ab huius artis officium noverit pertinere»48. Ma nella «forma» «de officio notarie a domino papa concesso» anche se non veniva specificata la peculiarità del poter rogare «ubilibet locorum», si minacciava «quod nullus hoc sacrum nostrum rescriptum audeat attentare, qui vero contra faceret sciat se anathematis vinculo innodatum…49», il che nella pratica portava alle stesse conseguenze.

Invece nel Ghibellino Salatiele tutto teso a ricercare una legittimazione da parte del Diritto Romano e forse volutamente sordo agli argomenti dei Canonisti, non c’è traccia di tutto ciò.

Del resto non molti anni dopo anche il guelfo Rolandino nel suo «Tractatus notularum» inserito nel «Tractatus Notularum» di Pietro d’Unzola, dopo aver chiarito in un primo punto, all’inizio dell’opera, di come esistano e siano storicamente esistiti vari termini per indicare la persona che esercita l’ufficio di notaio50, in un secondo punto avverte con grande prudenza di come sia indispensabile accertarsi su chi abbia nominato il notaio. Scrive, infatti, «secundum videndum est [p. 1004] quis potest tabelliones creare»51, ma non affronta direttamente la questione.

C’è, tuttavia, nel X capitolo della sua «Summa» qualcosa di interessante al proposito52 dove offre una «forma» di sottoscrizione notarile che comincia a trovare riscontro anche nei documenti dell’epoca53. La data espressa dalla «forma» si riferisce ai primissimi anni del sec. XIV ed andrebbe, perciò, attentamente studiata in relazione alla formazione e scrittura dell’opera, ma, se non si va errati, esprime di per se stessa una nuova via seguita dall’ars notaria per un approfondimento della dottrina nella ricerca e nella spiegazione delle possibili interrelazioni tra i concetti di auctoritas e di potestas. La «forma» della quale si parlava ed i documenti cui si accenna esprimono la qualifica del notaio come legittimata «ex auctoritate imperiali».

Si avverte, cioè, che il rapporto tra auctoritas e potestas non è più mediato, come in Salatiele, dalla consuetudine ma diventa diretto; una potestas, in altre parole, diventa tale solo se legittimata da una auctoritas e si accettano le auctoritates universali tanto in temporalibus quanto in spiritualibus. Ne consegue che se l’auctoritas è universale la potestas faciendi notarios, da un lato, e la capacità del notaio officio suo uti, dall’altro, potranno espletarsi ubique locorum.

La capacità del notaio non viene con ciò giustificata come consuetudine, come si è visto avveniva per Salatiele, ma dedotta logicamente dall’auctoritas da cui discende.

In altre parole la potestas è la logica conserguenza dell’auctoritas; riconosciuta un’auctoritas da essa può discendere per retta via una potestas.

Tutto stava, perciò, in questo riconoscimento, nel superamento, cioè, della stretta interpretazione dei testi giustinianei per cui, sulla base del Digesto, come avveniva in Salatiele, l’unica auctoritas universalis [p. 1005] era quella del «princeps». Superamento per cui tanto si erano battuti i canonisti con l’intento di affiancare all’auctoritas dell’Imperatore quella del Pontefice.

In fondo lo stesso Ranieri che pur nelle sue ricordate «formae» di documenti relativi alla nomina del notaio usati nella pratica per affiancare alla «forma» del documento usato per la nomina da parte dell’imperatore quella dell’istrumento per la nomina del pontefice, dà chiaramente a vedere di trovarsi, nei riguardi della teoria, nelle stesse difficoltà in cui si è constatato trovarsi Salatiele, tanto che non si azzarda ad affermare che il notaio nominato dal pontefice possa «officio suo uti» «ubilibet», ma ricorre all’espediente di rafforzare il documento con la minaccia dell’anatema, come avveniva nella prassi54.

Il pieno riconoscimento della auctoritas universale del pontefice accanto a quella dell’imperatore può dirsi chiaramente espresso proprio da Pietro de Unzola, l’autore del «Tractatus notularum» che nella «Summa» Rolandiniana è posto quasi a mò di apparato dell’omonimo «tractatus» del grande giurista. Scrive, infatti, il De Unzola: «…Creare igitur potest tabelliones Imperator vel ille cui ipse concesserit privilegium speciale ut est concessum et comissum comitibus de panico. Item creantur tabelliones a papa»55. E, subito dopo, specifica: «…sed nota quod tabellio constitutus ab Imperatore, vel a Papa vel ab eo cui speciali privilegio hoc indultum est potest ubicunque et in Francia et etiam in Anglia vel in Hispania non tantum in terris eis specialiter subiectis suo officio uti et instrumenta conficere…»56.

Probabilmente l’Ars Notaria, dapprima notoriamente sostenitrice dell’Impero ora che le fortune di questo sembrano declinare accetta alcune conclusioni della canonistica e, soprattutto, dell’auctoritas universalis «in spiritualibus» del Papa da cui poteva discendere la «potestas faciendi notarios». Tanto più che in un momento storico che molto non può discostarsi da un’altra grande presa di posizione pontificia, perché sono gli anni in cui Bonifacio VIII emana [p. 1006] la famosa Bolla «Unam Sanctam» nella quale le due auctoritates universales, il Papato e l’Impero sono raffigurate come già per Innocenzo III rispettivamente nel sole e nella luna con la differenza però che questa volta è detto che la luna è sempre vissuta e vive del riflesso del sole.

L’ipotesi pare suffragata dallo stesso dettato dell’Unzola quando afferma, saltando a piè pari le conclusioni della dottrina più a lui vicina: «ut glossatores periti notare et sentire videntur…»57.

L’accenno agli antichi glossatori pare significativo, essendo questi non certo appartenenti alla glossa tradizionale, ma al gruppo dei canonisti.

Restava ancora, tuttavia, una difficoltà che non doveva sfuggire ai commentatori del Codice. Riconosciuta l’auctoritas universale del Pontefice «in spiritualibus» ne poteva conseguire la competenza nella nomina ad un compito cui è legata la publica fede. Se è vero, infatti, che la fede pubblica è in qualche modo partecipazione alla verità non potevano sorgere dubbi in proposito, Ma la potestas che da essa può derivare è destinata, invece, ad agire «in temporalibus». Può, pertanto, esercitarsi «ubique locorum»?

Così, con tutta probabilità, si chiedeva Alberico de Rosate quando commentando il Codice studiava come giustificare e quali limiti fossero da porsi alla «potestas faciendi notarios» del Papa e osservava: «…et de papa tuto verum quo ad ecclesiasticas personas vel etiam seculares in terris, in quibus habet ecclesia temporalem iurisdictionem, vel, vacante imperio, ut dicitur per venerabilem qui filii sint legi(ptimi) papa enim in temporalibus non habet iurisdictionem de quo plene dixi supra de summa Trinitate58. Ed allora, come può una potestas destinata ad agire in limiti temporali nominare un notaio che, invece, può esercitare “officium suum” “ubique locorum”?».

Né Alberico né il De Unzola cercano di rispondere alla domanda, tuttavia le posizioni che essi adottano sono si può dire universalmente [p. 1007] accettate dall’Ars Notaria. Vale a dire che mentre si accerta come la potestas faciendi notarios del Pontefice possa esercitarsi solo nei limiti del suo potere temporale, resta pacifico che il notaio così nominato possa «officio suo uti et conficere instrumenta ubique locorum».

Si può, forse, ipotizzare, ma è soltanto una ipotesi di lavoro, che tali autori abbiano argomentato ancora una volta come si cercherà di esporre, rifacendosi a quei glossatori non certo tradizionalisti ma canonisti già ricordati dal De Unzola59.

Già nel sec. XII un ignoto glossatore ricordato nelle «Glosse Stuttgarnienses» e nella «Summa Lipsiensis», trattando del «jus sanguinis» si domandava: «…sed quid dicemus de hiis iudicibus qui ab ipso papa temporalem iurisdictionem accipiunt?»60, rispondeva: «ex auctoritate (accipiunt) potestatis executionem». E lo Schulte pubblicando le glosse al «Decreto» di Graziano, ricorda che un glossatore in materia di «causa sanguinis», così si esprime: la Chiesa può concedere «gladium sanguinis licet per se agitare illum non debeat» piché «saepe per alios possumus, quod non per nos…»61, con la conseguenza «quod papa nudam habet potestatem istam et non eius executionem et eam nudam concedit…», «sed ea concessa alicui, statim ei conceditur executio, quae ex ea pendet»62.

La Canonistica, pertanto, già da allora, aveva fatto leva sul principio «ex auctoritate executio potestatis». Può darsi, pertanto, che come era avvenuto con il De Unzola il riconoscimento dell’opera dei canonisti a favore dell’auctoritas pontificia per la nomina del notaio, la dottrina anche in questo caso ricorresse implicitamente al principio canonistico dell’«executio potestatis ex auctoritate», interpretandolo nel senso che anche il notaio nominato da una potestas riconosciuta entro limiti determinati, una volta nominato poteva poi rogare «ubique locorum» valendosi dell’auctoritas universale dell’autorità stessa che lo aveva costituito.

Così, a poco a poco, si strutturava e trovava una logica giustificazione il sistema di nomina dei notai che doveva riscuotere ampia risonanza [p. 1008] e riconoscimento in gran parte dell’Europa Occidentale sulle orme dell’espandersi del rinnovato studio del Diritto Romano e grazie alla divulgazione della «Summa Rolandiniana»63.


1 H. P. M. Chartarum, I, Torino, 1836, col. 75.

2 Cfr. G. Costamagna, La diplomatica del documento privato medievale della Liguria Occidentale, in «Rivista di Studi Liguri», anno L, n. 14, Atti del Congresso’I Liguri dall’Arno all’Ebro’, Bordighera, 1985, pp. 195-203.

3 G. Costamagna, La scomparsa della tachigrafia notarile nell’avvento della imbreviatura, in «Atti della Società Ligure di Storia Patria», N. S., III (LXXVII), fasc. I, Genova, 1963.

4 M. F. Baroni, Il documento notarile novarese: dalla «charta» all’«instrumentum», in «Studi di Storia Medievale e di Diplomatica», 7, Milano, 1982, pp. 13-24.

5 G. Cencetti, La «rogatio» nelle carte Bolognesi, in «Atti e Memorie della Deputazione di Storia Patria per le Provincie di Romagna», 1960, ora in Notariato Medievale Bolognese, Consiglio Nazionale del Notariato, Roma, 1977, pp. 219-352.

6 Sull’importanza delle imbreviature genovesi unica documentazione superstite per il secolo XII per lo studio della diplomatica della redazione del documento notarile, della storia economica, sociale e giuridica dell’epoca, si vedano: G. Bognetti, Per l’edizione dei notai liguri del sec. XII, Societá Ligure di Storia Patria, Genova, 1928; G. Costamagna, Il notaio a Genova tra prestigio e potere, Consiglio Nazionale del Notariato, Roma, 1970, e l’ampia bibliografia ivi citata sull’argomento.

7 Per una prima informazione sugli aspetti tecnici delle rinunzie ai benefici previsti dal Diritto Romano, si veda M. L. Carlin, La pénétration di Droit Romain dans les actes de la pratique Provençale, Paris, 1976, e l’ampia bibliografia ivi citata.

8 Corpus Juris, Nov. 73, cap. III.

9 Rolandinus, Summa totius artis notariae, Venetiis, 1546, f. 398 a.

10 Cfr. M. F. Baroni, Il documento notarile…, cit., e G. Costamagna, Dalla «charta» all’«instrumentum», in Notariato Medievale Bolognese, tomo II, Atti di un Convegno, Consiglio Nazionale del Notariato, Roma, 1977, pp. 7-26.

11 G. Costamagna, Dalla «charta» all’«instrumentum», cit., p. 9 e segg.

12 G. Costamagna, Il notaio a Genova…, cit., p. 52 e segg.

13 A. Liva, Notariato e documento notarile a Milano, Roma, Consiglio Nesionale del Notariato, Roma, 1979.

14 G. Costamagna, Il notaio a Genova…, cit., p. 60.

15 Cfr. E. Falconi, Il Registrum Magnum del Comune di Piacenza, Milano, 1984-85.

16 G. Costamagna, Il Notariato nel Regnum Italiae, in M. Amelotti-G. Costamagna, Alle origini del notariato italiano, Consiglio Nazionale del Notariato, Roma, 1975.

17 G. Costamagna, I notai del Sacro Palazzo a Genova, in «Atti dell’Accademia Ligure di Scienze e Lettere», Genova, 1954, ora in G. Costamagna, Studi di Paleografia e di Diplomatica, Roma, 1972, pp. 217-224.

18 Per l’influenza esercitata dal Comune sull’evoluzione della diplomatica del documento, cfr. G. Costamagna, Il documento notarile Genovese nell’Età di Rolandino, in «Atti del Convegno Genova, Pisa e il Mediterraneo tra Due e Trecento (Per il VII Centenario della Battaglia della Meloria)», Genova, 1984, pp. 367-382.

19 G. Costamagna, Il Signum Communis e il Signum Populi a Genova nel secoli XII e XIII, in Miscellanea di Storia Ligure in onore di Giorgio Falco, Genova, 1964, ora in G. Costamagna, Studi…, cit., pp. 337-347.

20 M. G. H., Friderici I Constitutiones curie Roncaliae definitio regalium, Leges, sectio IV, t. I, n. 175, p. 244 e segg.

21 G. Costamagna, Il notaio a Genova…, cit., p. 20.

22 Cfr. G. Costamagna, Dalla «charta» all’«instrumentum», cit., pp. 19-20, e la bibliografia in nota citata.

23 Cfr. G. Costamagna, Dalla «charta» all’«instrumentum», cit., pp. 19-20, e la bibliografia in nota citata.

24 Rainerii de Perusio, Ars Notaria, in Bibliotheca Juridica Medii Aevi, a cura di A. Gaudenzi, vol. II, Bologna, 1892, pp. 64-65.

25 Cfr. nota n. 20.

26 O. Gierke, Deutsche Genossenchaftsrecht, Berlin, 1881.

27 Wolf, Bartolus of Sassoferrato, His position in the history of mediaeval political thought, Cambridge, 1913.

28 Fr. Ercole, L’origine francese di una nota formula bartoliana, in «Arch. St. It.», 1915, e rielaborata nel volume Da Bartolo all’Althusio, Firenze, 1932.

29 Fr. Calasso, I glossatori e la teoria della sovranità, in Studio di Diritto Comune Pubblico, Firenze, 1945, e la bibliografia ivi citata.

30 S. Mochy Honori, Fonti canonistiche dell’idea moderna dello Stato, Milano, 1951.

31 Cit. in Mochy Honori, op. cit., p. 173 e seg.

32 Ivi.

33 Cfr. Rivière, Le probleme de l’Eglise et de l’Etat au temps de Philippe le Bel. Etude de Theologie positive. Louvain-Paris, 1926, Appendice IV, pp. 424-430.

34 Cit. in Mochy Honori, op. cit., p. 244.

35 Cfr. nota n. 30.

36 Cfr. Fr. Calasso, op. cit., p. 10, nota 1.

37 Azo, Ad Dig. Vet., de postulando, L. ult. (3,1,11) ms. Paris 4451, cit. in Fr. Calasso, op. cit., p. 20.

38 Cfr. Fr. Calasso, op. cit., p. 84.

39 Rainerii, cfr. nota 23.

40 Salatiele, Ars notariae, a cura di G. Orlandelli, Milano, 1961, II, p. 10.

41 Ivi.

42 Ivi.

43 Ivi, p. 11.

44 Ivi.

45 Salatiele, Ars…, cit., p. 11.

46 Cfr. nota n. 30.

47 Salatiele, Ars…, cit., p. 11.

48 Rainerii, Ars…, cit., p. 65.

49 Ivi, p. 64.

50 Rolandinus, Summa…, cit., f. 407 a.

51 Ivi, f. 407 (ma 408).

52 Ivi, f. 377.

53 Si vedano i documento degli anni 1309, 1339, etc., in M. F. Baroni, Novara e la sua diocesi nel Medio Evo attraverso le pergamene dell’Archivio di Stato, Novara, 1981, docc. nn. XVI, XLVI, etc.

54 Cfr. note nn. 47 e 48.

55 Rolandinus, Summa…, cit., f. 407 (ma 408).

56 Ibidem.

57 Ibidem.

58 Albericus de Rosate, Commentarii in primam Codicis partem de fide instrumentorum, c. 206, n. 9, Sala Bolognese, 1979 (ed. anastatica).

59 Cfr. nota n. 56.

60 Cit. in Mochyt Honori, op. cit., p. 127.

61 Schulte, Gloss. Decret. Gratiani, p. 15; cfr. anche Mochy Honori, op. cit., p. 128.

62 Schulte, op. cit., p. 14.

63 Cfr. P. Duparc, La pénétration du droit romain en Savoie, in «Rev. Hist. de Droit français et étranger», 1955; G. Partich, Les premiers contacts du droit romain avec le droit valaisan (1250-80), in «Atti del Congresso Storico Subalpino», I, 1958; F. Vercauteren, Note sur l’apparition des renunciations aux exceptions de droit romain dans les principautés belges au XIII siècle, in Etudes Didier, Paris, 1960; P. Tisset, Placentin et l’enseignement du droit à Montpellier, Rec. Mém. et Trav. publiés par la Société d’Hist. du Droit, fasc. 1955; M. Palasse, La renaissance du droit romain en Alsace, in «Mem. Soc. pour l’Hist. des anciens pays bourg. comtois et romans», fasc. 18 (1956); I. Iver, Les contracts dans le très ancien droit normand du XI au XIII siècle, Caen, 1926; G. Chevrier, Étapes de la pénétration du droit romain dans le Comté de Bourgogne aux XIII siècle, in «Mem. Soc. pour l’Hist. du droit et des institutions dans des anciens pays bourghignons, comtois et romans», fasc. 19, 1957; I. L. Gay, Les clauses de rénonciation au XIII siècle dans la partie méridionale du Comté de Bourgogne, in «Mem. de la Société pour l’Histoire du droit et institutions des anciens pays bourghignons, comtois et romans», 1960; M. L. Carlin, La pénétration…, cit., e la bibliografia ivi citata.